Naming: esempi per capire a cosa diavolo serve.
Trovare un nome per un’impresa è una vera impresa. Lo sapevano bene Adamo ed Eva che, prima di essere sbattuti a calci fuori dal Paradiso Terrestre dal Boss™ in persona, avevano avuto il compito di dare il nome a tutte le cose, dal più piccolo sassolino fino a quella Mela che, centomila e rotti anni più tardi, sarebbe diventata il simbolo di una delle più note aziende del mondo.
Ebbene sì, Adamo ed Eva sono stati i primi copywriter della storia e il loro primo lavoro (non pagato, in quanto stagisti senza esperienza) è stata proprio un’attività di naming.
Ma a cosa serve il naming?
Con naming, si intende l’atto di progettare il nome di un’azienda o di un prodotto. Si tratta di un’attività complessa e impossibile da improvvisare, che richiede perciò molto più del cugino smanettone o del CEO tuttofare che quel giorno si è svegliato particolarmente frizzante.
E se ho scritto “progettare” e non “creare” un motivo c’è. Un nome non si inventa né si crea: si progetta, tenendo conto di diversi aspetti. Da quello legale a quello fonetico, passando per la questione linguistica e la brand equity.
La creatività è solo una voce del menu, accanto al posizionamento aziendale, alla strategia, alla coerenza con il percepito dell’azienda, alla pronuncia, persino.
Essere un copywriter esperto in naming insomma, richiede una buona dose di versatilità. Bisogna essere un creativo che ragiona come un marketer e come un legale, il tutto per condensare un mondo di significati e valori in una sola parola. Mica facile, eh?
Perché il naming è così importante
Inutile spendere troppe parole per esplicare l’ovvio: il naming è importante perché, senza un nome, non possiamo essere riconosciuti. Oltre all’obbligo legale di avere un brand name, un buon nome permette di essere ricordati, ci permette di distinguerci sul mercato, fidelizza il cliente e determina il successo o meno di un prodotto.
Senza nome la marca non è nulla, solo chiacchiere, sogni e buone intenzioni.
E infatti alcune fra le aziende più importanti e conosciute al mondo sono partite, prima di tutto, da un brand name distintivo, unico, super. Pensate ad Amazon, Google, TikTok. Oppure la stessa Apple. Dove sarebbe arrivata se si fosse chiamata Computer&Software? Sarebbe stata alla frutta, e non per modo di dire.
Naming: quali tipologie di brand name?
Perciò, cerchiamo di capire come funziona un buon brand name, partendo dalla tipologia di naming. Come ci insegna Copy42, esiste una prima macro-categorizzazione di brand name: nomi descrittivi e nomi evocativi. Ecco alcuni esempi.
Nomi descrittivi.
I nomi di brand descrittivi dicono in modo chiaro di cosa si occupa l’azienda. Nomi come Perlana, Divani&Divani, Scarpe&Scarpe. Si caratterizzano per la trasparenza, per la didascalicità e per una maggiore facilità in fase di sviluppo.
D’altro canto, i nomi descrittivi sono soprattutto nomi funzionali e in quanto tali possono mostrare il fianco ad alcune criticità. Se ad esempio Scarpe&Scarpe decidesse di ampliarsi e di vendere anche divani, come dovrebbe comportarsi? Probabilmente dovrebbe cambiare nome o creare da zero un sub-brand, con un investimento notevole in termini di tempo e risorse.
I nomi descrittivi hanno inoltre poca personalità, meno fascino, e sono più attaccabili dal punto di vista legale.
Booking.com, ad esempio, ha una lista di competitor che l’hanno copiata proprio perché la parola booking è generica e non può essere registrata né protetta.
Nomi evocativi.
I nomi evocativi o suggestivi sono l’altra metà della mela. Sono nomi di forte impatto che hanno la capacità di creare associazioni di pensiero, di costruire attorno a quel nome un mondo di sensazioni che aiutano la memorizzazione e la fidelizzazione.
Amazon, ad esempio, prende il suo nome dal Rio delle Amazzoni, rinviando immediatamente alla mole immensa di prodotti acquistabili al suo interno, ma anche alla semplicità di fruizione che come un flusso di navigazione porta il cliente a destinazione in pochi istanti.
Oppure Nivea, che rinvia immediatamente al biancore della neve, alla delicatezza, a qualcuno che si prende cura di noi. O ancora Pandora, che riferendosi al mito greco ci fa immaginare un mondo di seduzione ed eleganza, uno scrigno di tesori da scoperchiare.
Nei nomi evocativi a fare la parte del leone è la forza dell’associazione tra significante e significato. Sono nomi che vivono di metafore e associazioni di idee. Nomi in grado di evocare, appunto, un mondo di valori e di sensazioni che appartengono a quell’azienda. Una promessa che, se mantenuta, saprà scolpire quel brand nella mente del consumatore. Risultato? Una grandissima personalità e, di conseguenza, una maggiore difficoltà di imitazione da parte dei competitor.
Patronomico
Molto diffuso agli inizi del secolo scorso e infatti molto spesso legato a brand storici e storicizzati, il patronomico non è altro che… il nome del fondatore.
Chanel, Armani, Ford, Cavalli. Dal punto di vista legale sono probabilmente i più facili da proteggere legalmente, ma di contro possono risultare freddi, magari più adatti al mondo automotive e del fashion. Da usare con consapevolezza.
Neologismi
Il meglio, lo lascio per ultimo. Forse la categoria più incredibile e quella più potente per chi cerca un brand name originale, è il Neologismo.
Qui davvero il copywriter fa una cosa magica: crea una parola che prima non esisteva, attraverso combinazioni di senso e di suono.
È come una sinfonia: qui sillabe, fonemi, lettere mostrano la loro forza, la loro musicalità. Insieme diventano morbide, dolci, allegre. Oppure solide, robuste, stabili, in base a ciò che si deve comunicare, all’archetipo dell’azienda.
E così nascono brand orecchiabili e indimenticabili come Zalando, Kodak, Google, Xerox.
Ma i neologismi spesso nascono anche “smontando” pezzi di parole esistenti, in modo da creare una parola diversa che non è mai solo la somma delle sue componenti.
Brand come Nutella, ad esempio, che parte da “nut”, ossia nocciola in inglese a cui si unisce un suffisso che da sempre in italiano si usa per rendere più graziosa e accattivante una parola.
Oppure Pinterest, dal verbo to pin (fissare, spillare) e interest, interesse. L’elenco potrebbe durare all’infinito, ma è ora di merenda e ho la torta di mele in forno, giusto per restare in tema.
Appare subito chiaro come il neologismo sia la categoria che ha più possibilità di generare un nome di brand distintivo, capace di condensare in una sola parola il dinamismo, l’energia, i valori e le promesse del brand.
Per concludere
Adamo ed Eva hanno fatto un ottimo lavoro, ma è un lavoro che non finisce mai. Per ogni progetto che nasce, infatti, per ogni idea che vuole farsi spazio in questo mondo imperfetto, c’è bisogno di un nome perfetto. E noi copywriter siamo pronti a rispondere, innocenti come colombe ma scaltri come serpenti. Perché il diavolo ama i dettagli. E pure noi.
Hai bisogno di un copywriter per un brand name? Conosciamoci e, se ci andiamo a genio, mettiamoci subito all’opera, perché di sudore della nostra fronte ne verseremo tanto. Dopotutto, i brand name non crescono sugli alberi. Mica sono mele.